Un gruppo di
pakistani si ritrova ogni giorno nel cortile del bar per giocare a carte.
I
pakistani hanno sempre la camicia perfettamente stirata, fa caldo, tutti
indossano quella bianca a maniche corte.
Il cortile del
bar è diviso in due parti da una ringhiera: da un lato, tavolini e sedie sparse
per gli avventori, dall’altro un unico tavolo grande per il gruppo di
pakistani. Quelli che giocano siedono attorno al tavolo grande e gli altri
stanno in piedi ad osservare la partita. Nessuno parla, le
carte sbattono sul tavolo per i movimenti secchi e decisi dei giocatori.
Nessuno parla per tanti minuti. Ognuno rimane composto nella propria posizione.
Sembra il tempo infinito che si immagina solo in oriente.
Fino a quando,
un brusìo improvviso nasce proprio tra i giocatori seduti al tavolo, allora si
aggiungono anche gli altri che sono rimasti in piedi. Inizia un riverbero di suoni, parole, forse commenti, una mossa vincente, diventa confusione, non li capisco ma è un crescendo assoluto, tutti agitano
le braccia, quelle braccia scure che spuntano dalle camicie bianche a maniche corte, si
scoprono anche le carte.
Poi d’un colpo è
di nuovo silenzio.
Non si sente più
nulla, i pakistani tornano immobili, ognuno riprende la propria posizione anzi
è come se non si siano mai spostati di lì, come se la partita non si sia mai
interrotta.
Anche le camicie non hanno aggiunto una piega.
Sembra una magia che può
succedere solo in oriente.
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