mercoledì 9 ottobre 2013

Ricami urbani_3

Ora di punta, semaforo, clacson, motorini, passanti. Roba su roba.
Un’auto è parcheggiata in seconda fila, a pochi metri dall’incrocio. Dentro, un uomo sta al telefono. E urla.
Passanti incuriositi.
"Ahòòò me sò stufato de fà da tassinaro a tu sorella, nun c'è, è mezz'ora che spetto, je lo devi dì, me sò stufatooo, nun sò un tassinaro io, lo volete capìì, sto a perde tempo, chiamasse quarcun altro, sta storia deve finì, me so spiegatoo??!!!!
Arriva una ragazza, alta, sportiva, con due buste della spesa. Apre lo sportello posteriore, posiziona le buste e si siede.
Passanti allarmati.
Ciao.
Ciao.
"Nun se pò continuà così, è chiaro o no?? 'Ndò sta quell'artro adesso, ‘ndo sta quell’altro, 'ndo staaaaaa??!!” sempre al telefono.
Arriva quell’altro, un uomo basso, sportivo, apre lo sportello del passeggero, a fianco di colui che urla. Entra e si siede.
Ciao Francé.
Ciao Alessà.
Pacca sulla spalla di Francé ad Alessà.
Passanti allibiti.
“Ahò sò ‘rrivati. Te saluto, famme annà”. L’uomo riattacca.
Mette in moto l’auto e parte.

[Famme annà o Er tassinaro de tu sorella - Anche questa è Roma d’esta_utunno]

martedì 24 settembre 2013

Ricami urbani_2

A 500 metri dall'ingresso del parco.
Un uomo è davanti al bar. Passa l'amico.
L'uomo: Ma guardalo, mò vai sempre a core. Che ce vai a fà se non fai altro che magnà e beve?
L'amico: E' per mantené 'na coerenza de panza.

[Coerenza de panza - Anche questa è Roma d'esta_utunno]

Ricami urbani_1

Al parco.
Due uomini panciuti corrono annaspando, uno è più avanti dell'altro di un solo passo.
Quello dietro: Aho guarda che te stai a sforzà troppo.
Quello davanti: Dici?
Quello dietro: Nun è che se te sforzi così tanto bruci deppiù. Devi guardà er frequenzimetro.
Quello davanti: Sò teorie.

[Sò teorie - Anche questa è Roma d'esta_utunno]

mercoledì 24 luglio 2013

Per un chilo di banane

"Signorina che me dà na mano per attraversà la strada? Devo andà a comprà le banane".
Porgo il braccio d'appoggio.

Un, due, tre...un passo lungo e due piccoli, cammina e balla il valzer la signora Margherita, 93 anni e una camicetta celeste con i volants.
"Da 62 anni sò sposata co la gramigna, me fa allergia".
Ex impiegata statale, diplomata: "M'hanno rimandato a merceologia e dattilografia ma adesso c'ho la testa sveja, so pure le poesie". 
Nata nel 1920: "Me li s'ho visti tutti, Mussolini, Hitler..sò sempre stata controcorente dicevo Duce, Duce alla fame ce conduce!". 
Cavaliere del lavoro: "Per l'attaccamento al servizio...sì, co lo spago!". 
Ha un figlio e un marito ma è separata: "Il marito te pò tradì, l'amica te pò tradì, l'unico che non te tradisce mai sai chi è?Il cane. A meno che non va fori de testa pure quello". 
Le danno fastidio le scarpe: "Ho mannato la portinaia a comperamme le ciabatte nove ma ha sbajato numero!".
Ha un'amica di 84 anni:" Me le devo trovà più giovani, quella guida pure, annamo a Ostia, al mare, ma è arteriosclerotica, forse è mejo che in macchina non ce monto più. L'altro giorno cercava il bagno e l'ha fatta in cucina. E poi te lo dico, lo posso dì? E' 'na stronza! Una volta m'ha tolto l'ombrello, me ce appoggiavo, ahò per poco non casco! Je rode che c'ho la pensione de invalidità. Ma te che dici, je telefono? La devo perdonà?".
Il figlio aveva un gatto: "Duecento euro pe faje il funerale e s'è lamentato pure...ahò er funerale d'un cristiano costa pure deppiù, per me mica pò spende solo duecento euro!". 
Si tinge i capelli e non passa sulle grate dei marciapiedi: "Nel quartiere io c'ho i fans, sò caduta all'età mia e me sò rimessa in piedi. A 93 anni!".
"...e pure se moro adesso... ma che me frega".

Mentre la accompagno a braccetto io?? Altri trent'anni portati così signora Margherita, altri trent'anni!

giovedì 4 luglio 2013

Loredana


Un bar alle sette del mattino già infonde aroma di caffè lungo il marciapiede, ogni volta che entra o esce un cliente e si apre la porta d’ingresso.
L’ Happy Bar fa eccezione. Non perché non disponga di ottimo caffè, piuttosto perché alle sette del mattino è ancora chiuso. Per una colazione con brioche e cappuccino, occorre trovare un altro posto. A meno che non si possa attendere fino alle 8 e 30, quando arriva Loredana.
Sono trent’anni che Loredana solleva la saracinesca dell’Happy Bar a quell’ora, per poi abbassarla di nuovo alle 21. Tranne se gioca la Roma. In quel caso il bar non chiude fino a quando non è terminata la partita.
Lo sanno tutti ormai, i clienti della via, gli unici a frequentare l’Happy Bar, conoscono le abitudini di lavoro di Loredana e nessuno si azzarda a contestarle. Per le occasioni in cui si deve partire presto al mattino o si gradirebbe anche un goccetto prima di andare a letto la sera, magari di ritorno da un viaggio o dopo una lunga giornata, i frequentatori dell’Happy Bar sono addirittura disposti a rinunciare al desiderio del momento, pur di non tradire il loro solito spazio esclusivamente a quel bancone. Nessuno cambia bar.
“Loredana devi annà a studià, nun fa come tu madre che dopo te ritrovi ignorante e tajata fori dalla bella vita. La voi fà la bella vita, Loredà? Ah, se ce potessi entrà ‘na volta in quei palazzi coi portoni grandi e che dentro c’hanno er cancello in fero battuto co tutti gli rzigogoli e pure er giardino! Me basterebbe fermamme in mezzo a quelle piante e guardà drento le finestre, tutte quelle stanze cor soffitto a cassettoni in ‘sti tempi moderni, certo che aveccelo quer soffitto significa esse proprio ricchi, i cassettoni!! Loredà, ascortame, ce vole che stai sopra i libri, fallo ‘no sforzo a mamma!”
Così ha sempre detto la signora Lucia, la madre di Loredana, e la figlia fino ai quattordici anni sopra ai libri c’è stata, però nascondendo sotto le lettere che scriveva al fidanzatino Giò o le canzoni di cui imparava subito a memoria il testo, non appena le ascoltava alla radio tre volte.
Loredana, finita la scuola dell’obbligo, era già dietro al bancone del bar. Incinta.
“E mò che famo? Chi je dà da magnà a sto fijolo? Loredà già me spacco la schiena a lavà tutte le scale der palazzo bello, mica ce posso sfamà pure un nipote, nun basta, ce lo sai. E la bancarella de tu padre nun venne miracoli, mica a casa nostra ce stà er soffitto a cassettoni? Quanto me piace quer soffitto! Ammò ce devi pensà tu a stà creatura nova, sarà sempre mi nipote ma più de tanto affetto nun je posso dà... Perché nun m’hai dato retta, bastava no sforzo in più sui libri... tutti sordi buttati.”
Ma Loredana non ha mai chiesto nulla ai genitori da quando ha avuto in sé Luca, il figlio suo e di Giovanni.
L’Happy Bar apparteneva al padre di Giovanni, il quale alla sua morte gli e lo ha lasciato.
Ma proprio Giovanni, un malaugurato venerdì, è finito sotto un’auto, mentre usciva proprio dal suo bar. Non è morto, ma ha riportato lesioni cerebrali che non gli hanno più permesso di stare dietro al bancone. Ed è così che ne ha preso pieno possesso Loredana.
Nella via, le storie di ognuno sono condivise di balcone in balcone, sui pianerottoli, lungo le panche della chiesa, e quello che è accaduto a Giovanni viene raccontato quasi come una disgrazia che poteva accadere a chiunque altro e di cui tutti si sono sentiti parte. Da quel giorno a Loredana i clienti non sono mancati mai, neanche la volta in cui fuori c’erano trenta centimetri di neve.
Loredana se ne accorge che i suoi clienti le prestano attenzioni, i maschi però, non le loro mogli. 
A quaranta cinque anni Loredana è una bella donna, mora, con i capelli sempre sciolti anche se al bar dovrebbe tenerli legati, vestita di nero per nascondere eventuali macchie di caffè e sulle labbra rossetto rosso, per sentirsi ancora attraente. E lo è, gli e lo dimostrano tutti.
L’unico che non può goderne è proprio suo marito Giovanni. Ma a Loredana di questo non importa, da quando ha avuto quell’incidente lei si è dedicata quotidianamente al lavoro, per crescere il figlio Luca e mantenere l’assistenza in casa per il marito. 
Ormai Luca è grande, lui sì che ha seguito le parole proprio di sua madre, di Loredana, ed ha preso il diploma all’Istituto alberghiero con il massimo dei voti, così ha trovato lavoro in uno dei ristoranti del centro, accanto a quei palazzi con il soffitto a cassettoni che tanto piacevano alla nonna.
Loredana si alza presto al mattino ma apre il bar alle 8 e 30 perché aspetta l’arrivo della donna che accudisce il marito, nel frattempo parla con Giovanni, cerca di tenerlo attivo almeno con il pensiero, gli racconta dei discorsi che fanno gli altri uomini al bar, di chi si è sposato, di chi ha aperto un negozio nuovo, mentre si occupa delle faccende di casa. Loredana è convinta che il marito sia in grado di capire le sue parole, anche se fatica a rispondere anzi, ad articolare qualsiasi suono. Abitano nella vecchia casa lasciata anche quella dal padre di Giovanni, gli infissi stanno cedendo, se nevicherà di nuovo sarà troppo freddo per lui, che sta sempre seduto, sulla sedia a rotelle.
Un cliente del bar ha promesso a Loredana che andrà a mettere gli infissi nuovi, ad un prezzo scontato, solo per farle un favore.
Loredana sa come trattare gli avventori, ha sempre un sorriso per tutti, nonostante conduca una vita affatto leggera ma sa come nasconderla e trova ogni modo per proteggerla dalle dicerie altrui.
Quando c’è la partita della Roma, anche Loredana partecipa ai cori, gioisce se c’è un goal, esprime pareri sui giocatori e tutti la accettano come fosse una di loro, della curva, solo che al momento non può vedere la partita allo stadio ma se la gode nel suo bar, dietro al bancone, davanti a quello schermo grande che da quando impera, all’Happy Bar, fa sentire gli abitanti della via un po’ più partecipi dei fatti del mondo.
Loredana è una donna scaltra, una volta si è difesa dalle avances di un cliente che aveva aspettato l’ora di chiusura per spingerla nello sgabuzzino ma lei ha urlato e si è dimenata con una tale forza che  l’uomo ha preferito lasciare in tempo la sua preda ed evitare di cacciarsi ulteriormente nei guai. Quell’uomo era di passaggio, di certo non un habitué, e il giorno dopo Loredana non ha fatto altro che raccontare a tutti l’accaduto, per dimostrare che sapeva reagire alle violenze dei vigliacchi e che, soprattutto, avrebbe deciso lei se e quando avere un altro uomo che non fosse Giovanni, quel povero marito a cui troppo presto la vita aveva negato la felicità coniugale.
"Me volevi tutta, brutto stronzo? T'ho mannato via co 'na manciata de capelli in mano. Facce 'na corda e strozzate, prima de ficcà la lingua addosso a n'altra donna!"
Non subisce l' esistenza Loredana, lei la graffia, con quelle unghie colorate di rosso che ogni giorno ripassa di nuovo smalto, perché l’acqua e i detersivi ne scalfiscono sempre piccoli segmenti e a lei non piace risultare scomposta.
Loredana non ha mai sporto denuncia e nessuno si è preoccupato di convincerla a recarsi dai carabinieri. L’Happy Bar è un luogo in cui sono in molti ad avere commesso errori passati, piccoli furti, ricettazione, spaccio, risse, animi dalla gioventù turbolenta che hanno scontato le loro pene ed hanno anche accettato la vita come un limbo che dista soltanto un passo, quello falso, dall’inferno.
Un giorno, nel mese di Agosto, a casa di Loredana arriva una lettera dell’Inps che attesta la revoca della pensione di invalidità beneficiata da Giovanni, a seguito della morte dell’uomo.
Ma Giovanni sta ancora diritto sulla sua sedia a rotelle, mangia, beve, guarda fuori della finestra, a volte abbozza pure un sorriso, anche fosse soltanto uno spasmo involontario dei muscoli facciali. Giovanni è vivo, non è morto.
“Ma che se sò impazziti? Che se magna 'sta gente?? Sto caldo j’ha dato ar cervello?! Famo, famo che è tutto 'no scherzo, se sò sbajati, sarà n'omonimo, te chiami Giovanni Gregori, se sò sbajati ma nun è che a Roma ce ne stanno tanti de Giovanni Gregori, o forse sì, alora ce devo capì! Anzi nun ce sta proprio niente da capì.E' n'errore demmerda e basta. Che ce vonno revocà?!? Mò me danno spiegazioni, mo je faccio vedé io!”
Loredana si infuria, le trema la voce, stringe i pugni per non urlare altro strazio davanti al marito. Si graffia da sola lo smalto sulle unghie per comprimere la rabbia generata da quel terribile quanto doloroso errore della burocrazia.
Poi guarda Giovanni, il marito sta sudando, dietro la schiena ha un asciugamano bagnato. E' l’estate più calda del millennio, così dicono al bar, e tutte le piante del balcone sono morte, loro sì, nell’arco di due giorni.
Quella mattina Loredana non va ad alzare la saracinesca, non aspetta nemmeno che arrivi l’assistenza, probabilmente le hanno tolto già anche quella. Con tutta la forza che l’afa le concede, carica Giovanni sulle spalle e lo sistema in auto, poi infila dietro la carrozzina.
E partono.
La donna guida in mezzo al traffico, Giovanni le è accanto e osserva la città che è meno caotica del solito, molte persone sono in ferie o in coda per il mare. Da tempo Giovanni non faceva un giro oltre le pareti dell’appartamento, nonostante quel respiro che viene dall'asfalto, sta dritto sul sedile, sembra quasi riprendere le forze.
Arrivano alla sede dell’Inps.
Loredana sistema di nuovo il marito sulla sedia a rotelle, lo spinge per il piazzale assolato e i due entrano nello stabile.
Nell’ ufficio pensioni, l’aria condizionata non funziona. Un impiegato è seduto alla scrivania con le braccia conserte, le temperature rallentano le energie ed anche il desiderio di applicarsi. L'impiegato ha però posizionato un ventilatore accanto a sé che gli concede un dignitoso refrigerio.
Appena Loredana nota il ventilatore, valica decisa lo spazio dei visitatori, afferra il marchingegno e lo sistema accanto alla sedia a rotelle del marito.
“E se quarcuno toglie ‘sto coso da qui è un uomo morto. Lui è morto, no Giovanni mio!”
L’impiegato ha un sussulto che lo risveglia dal torpore del caldo, guarda Loredana, poi si alza e si avvicina, domanda spiegazioni. La donna ormai in preda alla foga e ad un coraggio furente chiede di parlare con il Direttore. Dopo dieci minuti quello arriva, alto, smagrito, una carnagione che non vede il sole da anni, con la giacca che tradisce il sudore sotto il braccio. Su una mano stringe un fazzoletto, l'altra la allunga a Loredana.
Cosa si siano detti il Direttore e Loredana, cosa abbia detto la donna per prima non è stato mai raccontato in maniera precisa al bar. Chi dice che lei lo abbia preso a male parole, chi sostiene che gli abbia tirato in faccia la lettera, chi addirittura il ventilatore. Una cosa è certa, che non se ne sia andata fino a quando non ha ricevuto in mano la revoca della sospensione. 
C’è pure chi afferma che Giovanni, proprio lui, abbia biascicato una sola parola, in quella occasione, dopo anni di silenzio: “Vaffanculo”.
Fatto sta che Loredana e Giovanni sono poi usciti dal palazzo con tanto di scuse da parte di tutto l’Ufficio Inps.
Loredana quella mattina non ha aperto proprio l’Happy Bar, si è concessa una giornata di ferie, ha preso la direzione del mare e ha portato Giovanni a fare una passeggiata lungo il molo. Hanno anche comperato un gelato artigianale. “Te piace Giovà? Cattivo nun se po’ dì, ma manco bono. E’ mejo quello der bar nostro, vero Giovà?”.
Giovanni davanti a quel mare, con il viso della moglie difronte che gli imboccava il gelato aiutandosi con un cucchiaino, ha avuto uno spasmo muscolare.
“E’ stato er sorriso più bello che m’avesse fatto mai, sembravamo du ragazzini”.
Così Loredana lo ha raccontato a tutti, il giorno dopo, l’aspettavano, e non mancava nessuno al bancone dell’Happy Bar.

Il compagno di banco


In piazza “San Ciriaco Diacono e Martire” c’è una scuola elementare.
Un bambino di otto anni trascorre spesso la pausa della ricreazione rivolto verso il muro, nell’angolo dello stanzone della scuola, mentre gli altri scolari riempiono di chiacchiericcio, risatine e briciole, lo spazio intorno.
Quel bambino sta nell’angolo quando la maestra lo mette in punizione. Oggi è uno di quei giorni.
-      Mi scappa la pipì! . - esclama il bambino.
-       Resisti, non è ancora terminata la tua punizione.
-       Mi scappa tanto.
-       Devi imparare a trattenere gli istinti. Su, è un piccolo sforzo, obbedisci per una volta alla maestra.
-       Sto per farla.
-      E va bene! Andiamo al bagno allora, ti seguirò fino alla porta. Fai in fretta, l’ora della merenda è quasi finita e dobbiamo tornare in classe.
Così il bambino si volta, lascia l’angolo del muro e passa a testa alta in mezzo agli altri alunni che lo guardano ma non osano schernirlo. Egli è conosciuto a scuola come un tipo poco socievole e, soprattutto, capace di improvvisi scatti di ira. Difficile da immaginare per un corpo così minuto eppure, proprio stamattina, il bambino ha sollevato una sedia e l’ha scagliata contro un compagno soltanto perché il malcapitato aveva confuso una penna con la sua.
Il bambino entra in bagno. La maestra aspetta fuori.
Passa meno di un minuto. Il bambino esce dal bagno.
-     Com’è possibile? Non hai fatto niente, vero? Non ho sentito la tua pipì. Non era mica una bugia per prendere in giro la maestra?!
Il bambino alza gli occhi verso la donna e scoppia in una fragorosa risata.
-     Sei un maleducato, insolente, farò chiamare i tuoi genitori. E adesso torna immediatamente nell’angolo!
Il bambino attraversa di nuovo lo stuolo dei compagni, sempre più allibiti da quella sfrontatezza. Egli non ha alcuna fretta di tornare al suo posto anzi, quando arriva in mezzo allo stanzone, rallenta il passo e guarda tutti, uno ad uno, con un sorriso altro che benevolo; poi si riposiziona, il viso rivolto verso il muro.
-          Ma… ma… ti rendi conto che il tuo è un comportamento da… da…da… bambino cattivo?.
Silenzio.
-          … Vuoi rispondere alla tua maestra, per favore?
Di nuovo silenzio.
Intanto gli altri bambini smettono di muoversi o correre tra lo stanzone e il corridoio, a piccoli passi si avvicinano tra loro, nessuno ha il coraggio di fiatare. Cartacce di merendine a terra, occhi calamitati verso l’angolo, da dove, ad un tratto:
-          La mia maestra ha i capelli lunghi ma io gli e li taglierò con le forbici.
-          Che cosa? – esclama incredula l’insegnante.
-          Poi raccoglierò i capelli e li butterò nella pentola grande giù alla mensa. Mescolati al sugo. Tutti i bambini mangeranno i capelli della maestra. Qualcuno si strozzerà?
-          Che parole sono queste? Smettila di dire simili cattiverie.
Il bambino non si volta ma è il suo corpo che inizia a vibrare in preda ad una strana estasi, le parole escono lo stesso una dopo l’altra:
-          Alla mia festa di compleanno inviterò i compagni di classe. Da bere ci sarà alcool per tutti.
-          Cosa stai dicendo? E perché tremi? Hai freddo?
-          Poi spegneremo insieme le candeline. Alcool 90° gradi e succo di frutta.
-      Calmati e… ritira subito queste parole. Sono scherzi che non si fanno, brutti scherzi, non vanno neanche pensati. Lo vedi che poi ti senti male anche tu?
-        Le gole dei compagni sputeranno fiamme.  La scuola andrà a fuoco. Tutti bruceranno dalla bocca! Lingue squagliate, denti rotti,  labbra a pezzettini.
-          Ma cosa dici, come ti vengono in mente simili cattiverie e…cos’hai?
-          Brandelli dappertutto. E capelli in gola.
-          Ma perché tremi? Fermati …i tuoi compagni ti ascoltano, chiedi subito scusa!
-       Bruciato. Bruciato! Tutto diventerà nero, puzzerà di cenere e sarà… bello! Al fuoco i colori, i libri, gli astucci, i grembiuli.
-  Smettila!
-  I compagni di banco e le maestre. Devo fare pulizia, buttare via tutto e mettere in ordine la cameretta. Invece no, brucerò anche quella, così sarà in ordine subito. Non vedo l’ora!
-          Basta! Silenzio, smettila ho detto!
Per le ultime esclamazioni provenienti da un corpo che ormai trema da capo a piedi e vibra come una fiammella,  la maestra si alza di scatto dalla sedia poi rapida, agli altri bambini, quasi sottovoce:
-          Voi tornate in classe, la ricreazione è finita. Svelti!
Una biondina con due lunghe trecce che cadono lungo il grembiule, senza ben comprendere la gravità della situazione:
-          Maestra, e tu non vieni?
Il bambino vibrante a sorpresa rincara la dose:
-          Non può.
-          Certo, arrivo subito, andate in classe voi ora, fate in fretta. – ribatte pronta la maestra.
-          Maestra lo sai che non è vero. – insiste lui.
I bambini si allontanano velocemente da quell’angolo dello stanzone mentre la maestra tenta un passo verso lo scolaro ormai fuori controllo:
-          Stai delirando, cosa ti succede, ti senti male, ti fa male la testa? Parla con la tua maestra!
-          Resterai qui con me, sono un bambino, potrei farmi del male se mi lasci da solo.
-          Ma certo mi vedi, voltati, non mi muovo da qui.
-          Non è bene lasciare i bambini da soli. Non è bene.
-          Tu non sei solo, guardami, sono con te.
-          Ma cosa è bene e cosa male? Lo insegnano le maestre?
-          Ve l’ho spiegato tante volt..
-         E a loro chi gli e lo ha insegnato? Poi qualcuno brucia i bambini se rimangono da soli. Questo lo sanno le maestre?
-          Ricominci con queste brutte parole, no. Calmati, ti preg…
-          Qualcuno i bambini li prende e li brucia.
-          Ma non è vero, tutti vogliono bene ai bamb..
-          E’ falso! Bugia, bugia!! C’è scritto sui libri.
-          Ma cosa, dove lo hai letto?
-          C’è scritto?! Chi lo ha scritto?
-          Scritto… cosa?
-          Che i bambini escono dalla torre come fumo, al fuoco, non li lasciate soli, qualcuno li prende, brucio anch’io. No, io no. Io non brucio. I miei capelli no. Io non posso. I capelli dei bambini sono troppo leggeri. Poi si strozzano.Volano via. Allora gli do fuoco. La cenere vola via. Li guardo, li voglio tutti.
-          Ma che diavolo…
-          E’ questa la verità, solo questa è la storia vera!
La maestra fissa la schiena del piccolo, non riesce a parlare.
Suona la campanella. Il rumore metallico scuote l'animo atterrito della maestra.
Quando il suono finisce, la donna riesce a prendere un ampio respiro. Poi allunga un braccio verso la spalla destra del bambino, la tocca e lascia che lentamente il palmo si distenda per quel contatto. Il peso della mano preme sulla spalla acerba. Il corpo del piccolo lentamente smette di tremare. La mano della maestra avverte che il grembiule è bagnato, sudato,  il respiro veloce, è il cuore del bambino che sotto batte forte. Silenzio.
-          Finita. La ricreazione è finita. Andiamo in classe.
-          … La mia punizione.
-          Anche quella, finita. Non preoccuparti. Torniamo dai tuoi compagni.
-          I miei compagni. Sono rimasti soli fino adesso?
-          Sì…cioè no…ti stanno aspettando…soli, per un attimo…
Silenzio.
-          E la bambina bionda con le trecce?
-      Chi… Lucrezia? E’ in classe con gli altri. Sempre al primo banco, per stare vicino alla maestra, che brava bimba. Lo sai che Lucrezia è così buona.
-          Voglio sedermi vicino a lei.
-          A Lucrezia? Va bene…Ti farà bene.
-          Non deve mai più rimanere sola.
Il bambino rimasto fino ad ora verso il muro, si volta.
I capillari degli occhi sono tutti lì, rossi a fissare il corridoio dall’altra parte dello stanzone.
Senza rivolgere uno sguardo alla maestra, egli si stacca dal muro e attraversa lo spazio lasciato deserto. Si dirige verso la sua classe.
La maestra subito lo segue ma non riesce a stargli dietro, lui è rapido nei passi, lei per raggiungerlo deve quasi correre.
Arrivati sulla porta della terza D, il bambino si blocca, abbassa la testa ma alza lo sguardo.
-          Maestra, diglielo tu a Lucrezia.
-          Che sarai il suo compagno di banco?
-          No. Che voglio le sue trecce.








domenica 2 giugno 2013

Oinch,oinch,oinch

Apro il cancello della palazzina e... sto.
Un'auto è parcheggiata a trenta centimetri dal cancello. Non posso uscire. Per farlo potrei solo arrampicarmi sul cofano. Sono anni che desidero arrampicarmi sui cofani.
Dal bar di fronte qualcuno mi vede, quelli controllano tutto: "Ahoo, mo pe uscì te ce vole n'astaa!!"
Già, un'asta. Da dare sulla schiena al furbo che ha parcheggiato, penso io.
Mentre penso, butto un occhio dentro l'auto. Ma c'è un bambino?!?

Sta dormendo nel seggiolino sul sedile posteriore.
Intanto qualcuno del bar ha avvisato il proprietario dell'auto, infatti un uomo esce e si avvicina.
Oinch, oinch, oinch, mastica una gomma e mi guarda, sorriso sornione, di un uomo pancione.
Machetteridi?!Penso ancora io, le penso tutte e me le tengo per me, forse è meglio.
Anzi no: "Non ha lasciato spazio per uscire, vede, non c'è proprio spazio".
L'uomo sale in auto e parcheggia poco più avanti, di quel tanto che basta per lasciar libero il passaggio davanti al cancello. Oinch, oinch, oinch, le mie parole completamente ignorate, impastate dal suono della gomma.
Poi lui se ne ritorna al bar.
Ed io esco.

Ma c'era un bambino.
Quel bambino che ha continuato a dormire nel suo seggiolino sul sedile posteriore, ignaro di tutto. 

Di essere parcheggiato a volte qui, a volte lì, un pò più avanti, un pò più indietro....

lunedì 4 marzo 2013

Donna in bilico


“Anche stanotte non ho chiuso occhio. Da quando sto a Parigi, non riesco a dormire. Non sono i rumori della città a tenermi sveglia ma la luce. Questa luce artificiale che mi segue tutto il giorno. Coprirei il mio viso con le mani, mi abbasserei le palpebre a forza, se potessi. Più di cinque secoli nella stessa posizione, ho anche i palmi gonfi ormai. Eccolo, di nuovo il soffio lungo la schiena. Eppure nella sala non ci sono finestre. Sarà la brezza del fiume, il vento che alita tra quelle valli, dietro di me. Non posso vederle ma so che ci sono. Non è il sole a scaldarmi, piuttosto i capelli che hai dipinto oltre le mie spalle. Dovrei ringraziarti per questo? Leonardo, te lo dico, quanto vorrei scendere da qui.”
A pronunciare queste parole è una donna sulla cinquantina, lineamenti d’altri tempi, abito scuro, scollato.
La donna è seduta in bilico sulla parte esterna della ringhiera di un terrazzino, al terzo piano di un palazzo.
Sotto di lei, in mezzo alla strada, una signora in pantofole si stringe nel maglione mentre tiene lo sguardo rivolto all’insù, è la vicina di casa della donna in bilico.
Un uomo, che sta passando svelto davanti a quel palazzo, nota la signora in pantofole, segue la direzione del suo sguardo e si accorge della donna sulla ringhiera.
“Oddio, ma cosa sta facendo lassù?”
“Cerca la posizione giusta.” – risponde la donna, la vicina di casa, senza distogliere lo sguardo verso l’alto.
“Ma è pericolosissimo, quale posizione giusta? Deve scendere immediatamente, qualcuno faccia qualcosa! Da quanto tempo è lì? Possibile che nessuno sia ancora intervenuto?.” – il passante non riesce a credere a ciò che gli si presenta davanti quella mattina quando, come tutti gli altri giorni, è in giro per entrare ed uscire da vari uffici e sbrigare la solita burocrazia.
“Saranno dieci minuti che sta così ".
"Quanti?!" .
"Il tempo di ripetere quella manfrina, ormai conosco le parole a memoria."
"Cosa sta dicendo?" - incalza sempre più attonito il passante.
"Quella povera donna cerca solo di essere ancora la passione del marito.
"Che?".
" Era un pittore, Leonardo Gasparoni. Lo conosce?".
Il passante guarda la signora con l’espressione di chi pensa che probabilmente avrebbe dovuto conoscere tale Leonardo Gasparoni ma forse anche no.
"E’ morto".
"No, non lo conosco". – il passante si sente quasi in difetto per quella mancanza.
"Un grande artista, grande. Non mi intendo di certa roba ma i quadri del Signor Gasparoni erano proprio belli, solo ritratti. Fare ritratti è più difficile che disegnare mele e pere, è d’accordo? I visi non rimango sempre uguali, bisogna sbrigarsi, passa un minuto e la ruga cambia. Lei dipinge?".
"Io? No, non sono mai stato bravo con il disegno". – il passante ascolta e risponde alla signora ma rimane con gli occhi incollati a guardare quella donna seduta sulla ringhiera del terzo piano. Come volesse scongiurare il peggio solo con lo sguardo.
"E chi dice che bisogna essere bravi. Ci vuole estro! Quando era vivo il marito, i Gasparoni mi chiamavano per fare le pulizie così le vedevo. Tutte quelle facce appese in ogni angolo della casa, persino in bagno. Non erano solo dipinti.  Quella era gente viva. Viva. Mi capisce? Le sognavo anche la notte.”
"Ma lei non lo sa?".
"Che il marito è morto? Ma certo! Non è mica matta. Solo non se ne vuole fare una ragione. Negli ultimi tempi il Signor Leonardo si era messo in testa di copiare la Gioconda, diceva che la sua sarebbe stata un’opera migliore di quella che sta al Louvre. Secondo me ci poteva riuscire benissimo. Una volta ha anche messo il pennello nel caffè, scambiandolo per un cucchiaino. Non vedeva altro.".
La donna si avvicina al passante, posa una mano sull’avambraccio di lui e abbassa il tono di voce, con tono confidenziale:
"Un giorno la Signora Gasparoni ha avuto la febbre alta, delirava quasi, fortuna che ho pensato io a comperare le medicine, altrimenti nessuno sarebbe uscito da quell’appartamento per assistere la poveretta... Quella volta ho capito".
Poi la donna torna nella posizione iniziale, stringendosi sempre più nel maglione, l’aria del mattino è ancora fresca. Gli occhi a puntare il terzo piano.
"Capito cosa?".
"Una volta sono andata in gita a Parigi, ha presente i viaggi organizzati? Da sola non mi muovo, ma mi sono iscritta al gruppo vacanze della parrocchia con la signorina Marisa, si fa ancora chiamare così ma ha settantadue anni Marisa la signorina. Comunque, quella volta, ho visto proprio La Gioconda. Quella famosa! Ma cosa avrà di tanto importante ho chiesto alla Marisa, era un quadro piccolo, lungo un corridoio, neanche la signorina di settantadue anni ha saputo darmi una risposta.
"Ma cosa c'entra?!?"
"Eh, l’arte rende pazzi, ignoranti ooo…" La signora guarda l’uomo al suo fianco senza terminare la frase. L’uomo ascolta, aspetta, poi si volta. I due si fissano.
"Oppure?".
"Gelosi!"
"Gelosi?"
 "Ma sì!"
"Mi faccia capire".
"La signora Gasparoni era gelosa di quella Gioconda, cioè non del quadro, quello è un quadro, ma della donna dipinta, la Monnalisa. Il marito ci parlava, diceva che aveva una bellezza irraggiungibile da qualsiasi altra donna e quella posizione così accattivante, accattivante diceva il signor Gasparoni, seduta di tre quarti, per me davvero scomoda, io sentivo tutto mentre facevo le pulizie e la vedevo poi la signora Gasparoni che cercava in ogni modo di assomigliare a quell’altra donna e avere ancora addosso gli occhi del suo uomo, altro che la Monnalisa. Ecco perché ora sta lassù, in faccia al cielo, dove riposa il marito in eterno, e tenta di mettersi in quella posizione, davanti a lui, accattivante, diceva. Per riconquistare il suo uomo - Lo sa, al funerale eravamo soltanto in cinque, la Gasparoni, io, la signorina Marisa, il prete. E il morto."
Il passante rimane un attimo in silenzio ad osservare l’equilibrista, quella donna sola. Poi sbotta.
"E i pompieri, la polizia, non stanno facendo nulla!? Perché non li ha chiamati? Non interviene nessuno, com’è possibile tutto questo?" .
"Qui nel quartiere conosciamo già come andrà a finire, non è la prima volta. Anzi, sa mica che ore sono?"
L'uomo non fa in tempo a rispondere che, dalle campane della chiesa, si sentono in quell’istante nove rintocchi.
"Perfetto, orario di apertura del Museo. Ora faccia silenzio. Ci siamo."
Dal terzo piano giunge la voce della donna seduta sulla ringhiera, con un tono tale da poterne udire distintamente le parole:
"Tra poco entreranno migliaia di occhi, come ogni giorno, e mi supplicheranno di essere compatiti, aiutati, desiderati. E’ forse questa la mia funzione? Può darsi. Se mi hai creata per alleviare la solitudine del popolo, allora ho deciso, resterò qui! Che non manchi mai a nessuno uno sguardo di comprensione."
Pronunciate queste parole, la donna del terzo piano, con stupefacente agilità, alza le gambe e scavalca la ringhiera, rientrando così nella parte interna del terrazzino, al sicuro. Apre la portafinestra per poi richiuderla dietro di sé. Scompare oltre i vetri e  allo sguardo di chi è rimasto sotto.
"Visto? E’ di nuovo tutto finito." – conclude rasserenata la vicina di casa - "Possiamo andare".
"Come di nuovo? Finito? E se quella donna ci riprova? Non può rischiare così la propria incolumità, mi sembra assurdo, qui c'è bisogno di un ricovero!".
" Ah, ma quale ricovero? E crede che non lo farebbe anche dalla finestra di un ospedale, non si affaccerebbe ogni giorno anche da lì? Non le rimane altro ormai, niente figli, mai più marito…”
"Almeno sarebbe controllata a vista!"
"E noi cosa abbiamo fatto? Anche qui è guardata a vista da me, da lei, dai passanti che per la Signora Gasparoni sono come i visitatori del Museo".
Il volto del signore acquista un’espressione di totale incredulità. La vicina di casa invece concede al passante le ultime definitive spiegazioni, quasi fosse una guida turistica.
"La rendiamo contenta così, mi segue? Anzi grazie, meno male che non ero sola, anche oggi abbiamo realizzato il suo gioco".
"Gioco?"
"Qualcuno che si fermi a guardarla e ad ascoltarla con attenzione, almeno per un istante."
"Sta dicendo che è tutto finto? Quella donna in bilico sulla ringhiera del terzo piano è solo una messa in scena?".
"Un quadro".
"Un quadro? Ma cosa? Che cosa significa?".
"Che a volte basta così poco per sopravvivere".
Il signore in impermeabile rimane ammutolito, troppi pensieri gli si affastellano in testa, quell’aria frizzantina del mattino poi inizia a sentirla, gli stringe la nuca. L’uomo osserva il volto sereno della donna in pantofole poi si volge attorno. L’edicolante dall’altra parte della strada, i ragazzi fermi ad aspettare l’autobus, pure una vecchietta che porta a spasso il cane, hanno tutti gli occhi puntati su di lui.
E’ la donna a rompere il silenzio:
"Torno alle mie faccende domestiche… posso offrirle un caffè?"
Sconcertato, l'uomo guarda l’orologio che lo riconduce alla sua realtà, sono passate le nove ormai da alcuni minuti.
"La ringrazio ma sono in ritardo, mi aspettano in ufficio. Mi dispiace...gradirei volentieri, mi creda. Devo proprio andare".
La vicina di casa allunga una mano infreddolita e stringe quella calda del signore:
"Allora arrivederci".
"... Arrivederci".
"E grazie".
"Di cosa?... - l'uomo rimane con le parole in bocca, non trova nulla da aggiungere.
La donna allora si avvia al portone del palazzo. Prima di infilare la chiave nella toppa si volta, l’uomo è ancora lì con lo sguardo perso tra l’alto, il basso e tutt’attorno.
"Ah, la prossima volta le mostrerò le foto di Parigi!"
"Sì... la prossima...volta" -  balbetta il signore, stringendosi nell’impermeabile beige.
Poi il portone si chiude. La donna scompare lungo scale.